E’ la sera del 24 agosto 1990.

Siamo a Case Castella, un pugno di case lungo la strada provinciale per Ridotti, piccola frazione del Comune di Balsorano, in Abruzzo.

Cristina Capoccitti ha 7 anni.

Quella sera dopo essere rientrata a casa per l’ora di cena, non ha molta fame così alle 20.30 circa prende uno yogurt e torna fuori per tornare a giocare.

Verrà rinvenuta esanime in un bosco vicino casa qualche ora dopo, all’alba a meno di cento metri da casa sua.

Inizia la caccia serrata al mostro che durerà poco, a interrompere le ricerche è un reo confesso: è il cugino 13enne di Biancaneve, così veniva chiamata Cristina in paese.

Mauro è il figlio della sorella del papà di Cristina.

Ascoltato subito in Procura, il ragazzo racconta di aver visto la cuginetta nel pomeriggio di giovedì 24 agosto, di averle riparato la bicicletta e di essere rimasto in sua compagnia fino a sera nella piazza del paese.

Aggiunge che alle 20.30 , Cristina lo avrebbe invitato ad andare con lei nel bosco per mostrargli alcuni animali. Lì la piccola, secondo la ricostruzione del cugino, si sarebbe abbassata i pantaloncini.

A quel punto, l’avrebbe rimproverata e Cristina avrebbe reagito scappando.

Infuriato, il cugino l’avrebbe poi raggiunta e strangolata.

Poche ore dopo questa prima dichiarazione però il giovane riformula ancora il racconto e dice di essere stato lui a invitare la piccola nel bosco per tentare di violentarla e successivamente l’avrebbe uccisa per evitare che raccontasse tutto.

Massacrata a colpi di pietra dopo essere stata violentata.

Fu questa la prima voce in circolazione che si insinuò velocemente tra le vie di quella piccola frazione

in provincia de l’Aquila.

L’autopsia smentirà la violenza sessuale, ma il tentativo di metterla in atto c’è stato, la bambina infatti venne ritrovata con le mutandine abbassate e durante il processo nei tre gradi di giudizio venne accertato che Cristina morì per strozzamento dopo alcuni atti di libidine.

A finire sotto processo per poi essere condannato a l’ergastolo fu però Michele Perruzza, un muratore e contadino all’epoca quarantenne, zio della vittima.

Infatti proprio quando il caso sembra essere definitivamente risolto. arriva un altro colpo di scena, Mauro sconfessa le sue precedenti versioni e accusa il papà Michele

“L’assassino è lui “, dice e aggiunge “L’ho fatto per aiutare mio padre, ho anche tentato un paio di volte di suicidarmi, volevo bene a Cristina” e aggiunge di aver visto il padre allontanarsi con Cristina tra i rovi.

Ad aggravare ed avvalorare quanto dichiarato dal figlio sarà la dichiarazione della moglie di Perruzza, Giuseppa. Secondo la donna infatti, la sera dell’ omicidio, il marito sarebbe tornato a casa piangendo e urlando : “Cristina e morta, Cristina è morta”. Poco dopo però la moglie ritratta le accuse, difende il marito.

Arrivati a questo punto l’ipotesi è che in famiglia si fosse raggiunto un accordo, ovvero quello di usare Mauro come capro espiatorio poichè non imputabile per la sua età.

All’interno della casa de i Perruzza verranno rinvenuti in una cesta della biancheria una canottiera con i capelli di Cristina e uno slip di Michele Perruzza con tracce di sangue appartenenti a lei.

A far crollare questo quadro accusatorio che sembra essere sempre più solido è qualcosa che avverrà in un processo parallelo sulla falsa testimonianza aperto a Sulmona, nel quale si dimostra con una simulazione messa in scena sul luogo del delitto, l’impossibilità assoluta di scorgere qualsiasi movimento o figura, di notte, nel bosco, all’ora del delitto. Il test confuta ulteriormente la testimonianza di Mauro, dimostrando senza ombra di dubbio che in quelle condizioni ambientali, non potrebbe in alcun modo aver visto il padre, né altri, addentrarsi nel bosco e compiere violenza su Cristina.

Inoltre gli elementi emersi in aula proverebbero che anche le tracce organiche sugli slip appartenevano a Mauro, non a Michele.

Nonostante i dubbi, le indagini confuse, Michele Perruzza viene condannato all’ergastolo.

Condotto al carcere romano di Rebibbia, ne uscirà il 23 gennaio 2003 a bordo di una ambulanza diretta all’ospedale Sandro Pertini, dove morirà professando con le sue ultime parole la sua innocenza: “Dite a tutti che non sono stato io” dirà ai paramedici prima di morire,

Perruzza aveva inutilmente sperato nella revisione dopo che il processo satellite di Sulmona aveva gettato, nuovamente pesanti ombre sul figlio Mauro.

L’unica che forse poteva dipanare i dubbi su questo omicidio è Maria Giuseppina moglie di Michele e madre di Mauro, la quale probabilmente ha preferito rendere sacrificabile il marito al figlio con il risultato che il vero “il mostro di Balsonaro” è rimasto impunito e sulla famiglia Perruzza aleggia un’ ombra inquietante che ha oscurato per sempre la verità sulla morte della piccola Cristina Cappoccitti.

Dottoressa Linda Corsaletti.

Foto fonte web.

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