Di lavoro si può morire sia per il suo eccesso che per la sua mancanza.
“Karoshi” è il termine giapponese che indica la morte per eccesso di lavoro, un fenomeno sociale tanto inquietante quanto silenziosamente diffuso. Sono due le tipologie: le morti causate da problemi cardiovascolari per eccessivo stress e i suicidi in seguito a depressione.
In Giappone lavorare fino allo sfinimento è fortemente radicato nella loro cultura tanto che a nulla servono le campagne di sensibilizzazione in quanto l’eccesso di lavoro è considerato una forma di dedizione ammirevole.
Sta di fatto che la situazione è talmente grave che il “karoshi” è ufficialmente riconosciuto, nelle statistiche demografiche nazionali, come una causa di morte, alla pari di malattie come il cancro o degli incidenti stradali. Fortunatamente nel nostro paese non si hanno notizie di situazioni estreme anche se per svariati motivi si soffre da stress lavorativo.
Secondo i risultati di uno studio condotto prima della pandemia per quasi quattro anni dalla Federazione Italiana Aziende Sanitarie Ospedaliere (FIASO) su un campione di circa 65 mila lavoratori che ha coinvolto 19 tra Asl e Ospedali, lo stress lavoro-correlato in Italia colpisce un lavoratore su quattro.
Si tratta di una patologia in espansione la causa risiede nei ritmi vorticosi della nostra società ma che, purtroppo, per una serie di fattori legati principalmente alle difficoltà di accertamento della causa lavorativa risulta sottostimata nelle statistiche ufficiali, statistiche nelle quali ovviamente non confluiscono i dati dei lavori clandestini.
Paradossalmente però nel nostro paese si muore per mancanza di lavoro .
Oggi la mancanza di lavoro costituisce ben il 50 per cento del motore propulsivo che fa scattare la volontà suicidaria.
La recente crisi economica ha prodotto conseguenze devastanti su produzione, occupazione, reddito, risparmi delle famiglie e consumi .
Una fase ampiamente prevista e sottostimata soprattutto riguardo gli effetti negativi della crisi sul benessere psicologico delle persone già fortemente compromessa dalla paura e incertezza destabilizzanti generate dalla pandemia, periodo dal quale di base nessuno ne è uscito psicologicamente indenne poiché ha compromesso abitudini, stili di vita, rapporti sociali. L’individuo è stato per la prima volta costretto all’isolamento sociale oltre che economico, una combinazione micidiale per la salute mentale delle persone, soprattutto quelle più fragili psicologicamente.
Cio’ ha accresciuto il senso di impotenza e solitudine. Oltretutto questo vacillare delle certezze sembra ad oggi aver impattato irrimediabilmente in modo negativo sulla psiche della stragrande maggioranza delle persone poiché anziché portare l’individuo ad accrescere il suo senso di socialità lo ha portato invece a compiere scelte sempre più individualistiche, conducendolo gradualmente a perdere la capacità di agire in collettività .
La letteratura scientifica è concorde nel dimostrare senza alcuna reticenza che maggiore è la disponibilità di risorse economiche, migliori sono i valori di tutti gli indicatori di salute. D’altronde, che la stabilità economica e una condizione lavorativa soddisfacente si associno al benessere psicologico e abbia effetti positivi sulla vita degli individui in termini di autostima e prospettiva per il futuro, è un dato non solo assodato dalla comunità scientifica, ma anche dal senso comune .
Per arginare il più possibile il rischio suicidario dovuto alla crisi economica è necessario un impegno focalizzato al ripristino di un tessuto sociale ormai a brandelli, da parte delle istituzioni e di tutte le associazioni coinvolte nel volontariato oltre che a aiuti concreti che possano mettere l’individuo in condizioni di vita dignitose a livello lavorativo.
Una condizione il meno alienante possibile in cui il lavoratore possa cessare di rimanere intrappolato quotidianamente in una condizione precaria vissuta nell’angoscia del domani .
Dottoressa Linda Corsaletti.
foto fonte web
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